Previdenza integrativa: la truffa finanziaria del secolo contro i giovani lavoratori ?


L’origine della grande truffa
I presupposti per non avere dubbi che si tratti di una truffa ci sono tutti, a meno di avere una smisurata ed incrollabile fiducia nei mercati finanziari.
Il primo atto porta la data del 21 aprile 1993. E’ il decreto legislativo numero 124, preparatorio della cosiddetta riforma della previdenza complementare o integrativa.
Fino a quella data esistevano limitati esempi di previdenza integrativa. Per lo più sorti da vecchi accordi fra sindacati e alcuni grandi istituti di credito o aziende a capitale pubblico che si proponevano l’integrazione garantita della pensione di vecchiaia all’ultimo stipendio percepito prima del pensionamento.
Una previdenza garantista che aveva dato soddisfacenti risultati. Il lavoratore versava una quota mensile dello stipendio (1-2%) e altrettanto faceva l’azienda. Il trattamento di fine rapporto era escluso dalla trattativa e rimaneva interamente al lavoratore che lo incassava in un’unica soluzione al momento del pensionamento. Bastava questa quota per garantire, dopo 40 anni di lavoro, il 100% dell’ultimo stipendio. L’80% era corrisposto dall’INPS e ben il 20% dal fondo aziendale.
Il fondo era gestito direttamente dall’azienda secondo la vecchia normativa, che prevedeva la tassativa esclusione dell’investimento in titoli azionari e speculativi. Le somme raccolte potevano essere investite solamente in immobili e titoli di stato.

La controriforma del 1993 voluta apparentemente per tagliare la spesa previdenziale, attraverso la drastica riduzione delle pensioni future rivela un altro obiettivo da raggiungere attraverso il D.M. 21 novembre 1996 dal titolo: “ Regolamento recante norme sui criteri e sui limiti d’investimento delle risorse dei fondi pensione e sulle regole in materia di conflitto d’interesse”.
Lo scopo è palese, basta leggere l’art.1 che stabilisce la tipologia degli investimenti possibili. L’investimento diretto in immobili è escluso e al suo posto entrano tutti i possibili investimenti finanziari esistenti, compresi quelli ad altissimo rischio, che negli articoli successivi sono giustificati come forme assicurative per limitare il rischio. S’introduce la figura del gestore autorizzato, da nominare attraverso un concorso, fra un numero ristretto di operatori finanziari appartenenti a finanziarie e banche internazionali. Il gestore può investire in obbligazioni private, in azioni, in derivati e opzioni, in contratti di scambio pronti contro termini (swaps), in altri fondi aperti e chiusi, cambiali finanziarie, perfino quote di società a responsabilità limitata. In un modo o nell’altro può investire ovunque, dal Giappone all’America. Il legislatore finge solamente di preoccuparsi che una tale figura nasca in palese conflitto d’interessi, operando di fatto nell’interesse della banca o della finanziaria dalla quale proviene e contemporaneamente agendo per il Fondo Pensione che lo ha scelto. Per superare la contraddizione del conflitto d’interessi basta che il fondo autorizzi il gestore ad un determinato investimento, firmando un’autorizzazione nella quale dichiara di essere a conoscenza che il gestore opera in conflitto d’interesse.
Risulta palese lo scopo principale della riforma: lo sviluppo dei mercati finanziari internazionali, interamente affidato ad un ristretto numero di operatori finanziari che praticamente possono decidere di operare, senza limiti come vogliono.
Una decisione presa a livello soprannazionale nell’interesse esclusivo delle grandi lobbies finanziarie mondiali. La dimostrazione evidente è che il cambiamento avviene quasi contemporaneamente in quasi tutti i paesi che si riconoscono nei valori del capitalismo.

Le vittime della controriforma
La scelta ricade sempre sulle giovani generazioni, poiché autori delle leggi sono le vecchie generazioni. Colpiti saranno coloro che hanno iniziato a lavorare dalla data della controriforma, ma ancora più colpiti saranno coloro che hanno iniziato a lavorare da poco, grazie alle norme peggiorative introdotte dalla legge 23 agosto 2004 n. 243.
Le finalità della legge sono ancora più scoperte. Non si tratta più di limitare la previdenza, ormai ridotta ai minimi termini. Rimane in piedi solo la seconda della finalità sopra citate: la destinazione d’ulteriori somme ai mercati finanziari internazionali con un flusso garantito costante.
La legge, infatti, rende possibile la partecipazione del lavoratore alla pensione complementare solo nel caso che destini l’intera indennità di liquidazione al fondo, che obbligatoriamente la dovrà investire nei mercati finanziari internazionali. Nel caso che il lavoratore decida di tenersi l’indennità di liquidazione, oltre ad essere escluso dal fondo pensionistico, perde i contributi del datore di lavoro per la pensione complementare.
Con questa legge il fondo pensione sarà alimentato, quasi esclusivamente dal salario mensile e differito dei singoli lavoratori. Il versamento dei datori di lavoro riguarda una percentuale minima rispetto alle somme che sono versate mensilmente dai lavoratori. Nella maggior parte dei casi il lavoratore versa circa il 90% dei contributi, contro il 10% circa dei datori di lavoro. La percentuale massima d’intervento di questi ultimi si registra con il 32%, ma si tratta di casi rari e condizionati all’adesione ad un determinato fondo.

Le garanzie
A conti fatti il lavoratore per avere diritto ad una previdenza complementare deve versare un monte contributi di circa il 7-9% del salario indiretto e diretto percepito. A fronte di questa perdita di reddito che garanzie ha? Che pensione complementare percepirà? Di quanto integrerà la pensione garantita?
Cominciamo dalle garanzie. Nonostante la previsione dell’art. 6 del D.M. 21-11-1996 n. 703 dal titolo: “Gestione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale”, la stragrande maggioranza dei Fondi Pensionistici non garantisce assolutamente nulla. Una gestione impossibile, poiché, in questo caso, i costi della gestione sarebbero superiori ai rendimenti.
La pensione dipende dall’andamento del fondo e non è esclusa la perdita dei contributi versati. In definitiva la pensione dei lavoratori dipenderà dalle bizze dei mercati finanziari e dalle capacità e serietà dei gestori.
Al lavoratore insomma si chiede d’avere fiducia nei mercati finanziari, nonostante tutto quello che è successo e che sicuramente succederà. Un atto di fede che non ha nessuna logica se non quella di destinare una parte di reddito ad un mostro sconosciuto e sperare nella sua riconoscenza.
Il rischio a carico del lavoratore, che è stato privato di una parte consistente del proprio reddito, per quanto riguarda i contributi versati è quindi totale.
Nel caso di crollo dei mercati finanziari (ipotesi non tanto campata in aria) si perde tutto o quasi. La stessa cosa vale per truffe e malversazione da parte dei gestori o dei lori dipendenti (eventi già verificatisi e che hanno riguardato perfino la banca dei reali d’Inghilterra).
Per quanto riguarda le garanzie relative alla futura pensione ci sono altre zone d’ombra. Il lavoratore, ad esempio, al momento della maturazione della pensione non può richiedere una parte o tutto il capitale maturato a suo nome, ma deve convertirlo obbligatoriamente in una pensione. La reversibilità in favore del coniuge non è prevista, a meno di pattuirla anticipatamente al prezzo di un taglio consistente della pensione complementare. I familiari non sono minimamente tutelati.
Con la maturazione della pensione la pratica del pensionato passa dal fondo Pensioni alla società assicurativa di fiducia, che trasformerà il capitale finale in pensione, in base agli attuali parametri adottati dalle assicurazioni e ai caricamenti previsti. Un affare per le assicurazioni i cui costi sono a carico dei lavoratori. Una perdita per il lavoratore che si deve sobbarcare nuovi oneri.

L’operazione mediatica
Il meccanismo è semplice. La maggior parte degli interessati non deve sapere a cosa sta andando incontro.
La riforma è presentata come un atto dovuto, sulla cui convenienza non si può e non si deve discutere. L’opzione riguardante la destinazione del trattamento di fine rapporto è spacciata universalmente come unico rimedio (dopo i tagli apportati negli anni novanta) in grado di permettere ai giovani lavoratori una pensione dignitosa.
Una scelta senza via di ritorno. O si versa l’intero ammontare dell’indennità di liquidazione in un fondo oppure si perde la possibilità di integrare la pensione INPS garantita, che, ben che vada, raggiungerà, grazie alle cosiddette riforme, al massimo (impossibile da raggiungere) il 56% dell’ultimo stipendio, dopo 40 anni di lavoro e almeno 65 di età. Si calcola che le quote medie delle pensioni non raggiungeranno il 40% dell’ultimo stipendio. Questo è il ricatto. O rinunci alla liquidazione nella speranza di integrare la pensione con una quota incerta, indeterminabile, che dipende dall’andamento dei mercati finanziari mondializzati oppure ti devi accontentare di una pensione non dignitosa e di incassare il trattamento di fine rapporto rivalutato di una parte dell’inflazione e di un minimo d’interesse. Quest’ultima rimane la soluzione migliore.
Il secondo meccanismo per convincere i giovani lavoratori a rinunciare all’indennità di fine rapporto è il bonus, il premio. Una percentuale variabile dall’uno al tre per cento dello stipendio mensile che il datore di lavoro dovrà versare nel fondo complementare del lavoratore.
Il dilemma del giovane lavoratore quindi è semplice. Se esercito l’opzione e mi tengo l’indennità di fine rapporto perdo la pensione integrativa e il contributo dell’azienda e dovrò accontentarmi di una pensione da fame. Se decido di destinare la quota mensile, dovrò versare le quote di liquidazione che maturano in un fondo integrativo e sperare che siano bene amministrate in modo da ottenere alla fine un’integrazione di pensione decente.

Riepiloghiamo i motivi per i quali riteniamo il sistema della previdenza complementare una truffa.
Innanzi tutto il presupposto della legge è un falso. Anche nel nuovo regolamento, approvato il 24 novembre 2005, all’art.1 si afferma che il “fine della legge è di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale”. Si noti la differenza attraverso l’uso del verbo “assicurare” piuttosto di “garantire.
Questa menzogna ha le gambe corte, non solo perché lo scopo evidente ed esclusivo della controriforma è di trasferire una parte dei redditi da lavoro dipendente ai mercati finanziari (altrimenti la previdenza sarebbe assicurata), ma anche perché se si voleva veramente elevare le coperture previdenziali, bastava semplicemente garantire una quota adeguata di pensione, attraverso l’INPS, senza la necessità di creare una serie di costosissime strutture che non garantiscono nemmeno la restituzione dei contributi versati. Non ci sarebbe stato bisogno della scandalosa opera mediatica che coinvolge quasi tutte le istituzioni, sindacato compreso.
Ma facciamo un altro esempio di come si sarebbe potuta risolvere la questione senza dirottare le risorse nei mercati finanziari mondiali, assolutamente inaffidabili.
Non era più semplice e molto meno costoso approfittare del fondo unico nazionale di tutti i lavoratori (L’INPS) già esistente ed investire i contributi in sicuri titoli di stato del tipo per fare un esempio del:
BTPi scadenza 15/09/2014, cod.IT0003625909, dove lo stato garantisce agli investitori il 2,15 % d’interesse e la rivalutazione al 100% in base all’inflazione europea? Più della rivalutazione del TFR!
La mala fede è evidente.
Le finalità truffaldine sono ancora più evidenti nel comma 2 dell’art. 1 della legge, dove si dichiara che “l’adesione alle forme pensionistiche complementari disciplinate dal presente decreto è libera e volontaria”.
Sarebbe libera e volontaria se lo stato garantisse ai giovani lavoratori una pensione dignitosa. Ma come abbiamo constatato, la controriforma previdenziale garantisce pensioni medie che difficilmente arriveranno al 40% dell’ultimo stipendio.
Con la previsione di una pensione da fame come può essere l’adesione libera e volontaria?
Con il ricatto dell’estromissione alla pensione complementare e ai contributi aziendali nel caso non si accetti di destinare l’intera indennità di fine rapporto al fondo pensionistico, come può essere l’adesione libera e volontaria?