Università degli Studi di Torino
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TESTATA:
   02-09-2005 pag. 37
«Tfr e fondi pensione chi difende i lavoratori?»
di Alessandro Penati

Il rischio di costi eccessivi e rendimenti insufficienti.

La previdenza complementare esiste dal 1993, ma stiamo ancora aspettando che decolli. L'esigenza di fondi pensione privati nasce dal dissesto del sistema previdenziale pubblico: un numero sempre più esiguo di lavoratori deve sostenere una massa crescente di pensionati sempre più longevi. Impossibile aspettarsi che i lavoratori aumentino il risparmio per investire nei fondi pensione. L'unica soluzione è utilizzare il Tfr: l'obiettivo dei decreti che il Governo deve emanare.

I fondi pensione rappresenteranno un vantaggio per i lavoratori se garantiranno un rendimento superiore al Tfr e, quindi, un tenore di vita migliore in età avanzata. In caso contrario, si avrà solo una costosa redistribuzione del reddito, a scapito dei pensionati. Dovrebbe essere ovvio, ma non lo è affatto, almeno a giudicare dall'indecorosa partita in cui sindacati e industria finanziaria si giocano il futuro di milioni di famiglie per difendere interessi corporativi. Per quanto utilizzate per bassi scopi di bottega, c'è del vero nelle argomentazioni di entrambe le parti. Banche e assicurazioni spingono per la parità di trattamento tra i fondi aperti (strumenti finanziari offerti da loro) e quelli chiusi (promossi con contrattazione collettiva). Concretamente: libertà di scelta per il lavoratore tra i vari fondi; libertà per l'azienda di promuovere un fondo o aderire a uno chiuso esistente, e di versare la propria parte di contributi al fondo scelto dal lavoratore; piena trasferibilità delle quote accantonate da un fondo all'altro. La concorrenza è la prima vera tutela dei lavoratori: solo la competizione può spingere i promotori dei fondi a ricercare la gestione più efficiente, abbattere i costi, migliorare l'offerta di servizi e consulenza e, soprattutto, ad assumersi la responsabilità di scegliere il profilo di rischio finanziario che meglio risponde agli interessi del lavoratore, evitando la comoda soluzione di replicare, di fatto, il rendimento del Tfr. Se il lavoratore e l'azienda non sono liberi di cambiare, gli amministratori dei fondi chiusi, per quanto bene intenzionati, hanno ben pochi incentivi a prendere iniziative.

Sarebbe sbagliato fare affidamento solo sulla regolamentazione: questa non può sostituire la concorrenza e, in Italia, è eccessivamente cervellotica per essere efficace (la tutela dei fondi spetta alla Covip; quella delle banche, alla Banca d'Italia; delle assicurazioni, all'Isvap; degli attivi in gestione, alla Consob; della concorrenza, all'Antitrust; e in più c'è il Ministero del Lavoro).

A loro volta, i sindacati hanno ragione a sospettare che l'industria finanziaria tenda a collocare prodotti con costi eccessivi e rendimenti insufficienti. Facciamo il caso di un giovane con uno stipendio lordo di 25.000 euro, che cresce al 3,5% l'anno, e 35 anni di lavoro davanti a sé. Al momento della pensione può ottenere un Tfr di 173.000 euro, dopo averne pagati 9.000 al fisco sui rendimenti cumulati (3%, con un'inflazione al 2%). Se trasferisse il Tfr a un fondo chiuso con il profilo di rischio tipicamente suggerito per la sua età (circa il 35% in azioni), potrebbe ragionevolmente contare su 219.000 euro, ipotizzando un rendimento medio del 4,6% (in linea con quello secolare di azioni e obbligazioni, rispettivamente l'8% e il 3,2%). Il fisco incasserebbe 11.000 euro più che dal Tfr; e il fondo 13.000 euro di commissioni (intorno allo 0,35% per un fondo chiuso di quel tipo). Il maggior beneficio per il lavoratore e per il fisco, e le commissioni del fondo, derivano esclusivamente dal maggior rendimento del portafoglio rispetto al Tfr. Benefici che sparirebbero se il fondo proponesse un profilo di rischio troppo basso.

Se lo stesso giovane investisse in un fondo pensione aperto con le stesse caratteristiche di rischio (su cui le banche applicano commissioni totali di circa l'1,3%) si troverebbe in tasca gli stessi soldi del Tfr. Tutto il beneficio del fondo andrebbe al fisco (20.000 euro) e alla banca (44.000 euro). Se poi investisse in una polizza assicurativa, che tipicamente ha caricamenti medi del 5% (prelevati a ogni versamento), commissioni di gestione dello 0,7%, e spesso commissioni pagate ai fondi in cui la polizza investe (1,1%), arriverebbe alla fine con solo 154.000 euro: 19.000 in meno del Tfr.

Un'offerta così smaccatamente fuori mercato può prosperare solo sfruttando la provata ingenuità del risparmiatore italiano, l'opacità e complessità degli strumenti finanziari offerti, e l'ineludibile conflitto di interessi delle reti di vendita (chi offre a un imprenditore il fondo pensione per i dipendenti, gli offre anche prestiti, leasing e gestione del suo portafoglio).

I fondi pensione dovrebbero rappresentare un'opportunità per banche e assicurazioni perché anche gestione e amministrazione delle attività dei fondi chiusi sono comunque appannaggio loro. Ma qui i margini sono bassi. Ben più ampi (specie per il profilo di rischio dei portafogli in gestione) quelli che derivano dalla mera attività di collocamento. Da qui la volontà di replicare nella previdenza complementare il modello collaudato con tanto successo (per i loro bilanci) nella gestione del risparmio delle famiglie.

Purtroppo, per il lavoratore, non è finita. Oltre al potenziale danno, il rischio della beffa: temendo che in un attimo possa sperperare i risparmi di una vita di lavoro, in un eccesso di dirigismo paternalista, sindacati e Governo dell'Ulivo hanno stabilito l'obbligo di pagare almeno il 50% del Tfr, trasformato in fondo pensione, sotto forma di rendita vitalizia. Mettendo così fondi pensione e lavoratori alla mercè delle compagnie di assicurazione, senza specificare i criteri per la determinazione della speranza di vita, e con l'unico vincolo di un rendimento minimo di appena il 2% (quanto l'inflazione attesa). Sembra che neanche l'attuale Governo si sia posto il problema. Ma tanto, alla peggio, ci rimetterà qualche milione di italiani.