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I vecchi Bot, Btp e Cct? Rendono pochino, adesso siamo tra 3 e il 4 per
cento annuo. Investire in Borsa col metodo del fai da te? Rischioso, se
non sei un esperto. Affidarsi ai fondi d'investimento? Sì, ma sapendo
che difficilmente i gestori sapranno far meglio delle singole Borse o dei
singoli titoli di Stato. Puntare alle obbligazioni alternative? Con mille
cautele, perché il bidone è dietro l'angolo. Rifugiarsi nelle
polizze vita collegate con indici di Borsa per sperare in un rendimento
più brillante? Occhio, perché i costi sono elevati e i panieri
fatti in modo complicato: portare a casa qualcosa in più del minimo
garantito è un mezzo miracolo.
A metà del 2001, per il risparmiatore italiano le scelte si rivelano
sempre più rischiose. E il guaio è che a tradirlo non sono
solo le Borse, che da un anno hanno innestato la retromarcia, ma soprattutto
quelli che dovrebbero indicargli la rotta: banche, assicurazioni, società
di gestione dei fondi comuni. Nei giorni scorsi è esplosa la feroce
polemica tra Mediobanca e Assogestioni, l'associazione di categoria dei
fondi. Il Rapporto annuale sul risparmio gestito elaborato dagli analisti
di Piazzetta Cuccia è impietoso con il sistema dei fondi, che nel
2000 ha rifilato cocenti delusioni ai sottoscrittori, e però ha
intascato 6,6 miliardi di euro di commissioni e si è portato a casa,
secondo la Banca d'Italia, un utile di 1.932 miliardi di lire, più
65 per cento rispetto al '99.
Hanno deluso, i fondi italiani, perché gli azionari hanno ottenuto
una performance peggiore di quella delle Borse (l'indice dei fondi specializzati
in azioni italiane, per esempio, ha perso il 13,6 per cento e l'indice
Mib ha guadagnato il 4,7) mentre i Bot a 12 mesi, con il loro scarno 3,2
per cento netto, hanno comunque fatto meglio dei fondi di liquidità
dell'area dell'euro, che hanno ottenuto un rialzo del 3 per cento. Il segretario
generale dell'Assogestioni, Guido Cammarano, ha accusato Mediobanca di
usare «una metodologia non adeguata a valutare le performance del
risparmio gestito». Anche utilizzando altre fonti, tuttavia, il risultato
è sconfortante per i gestori. Secondo le analisi di Morningstar,
specializzata nel monitoraggio dei fondi a livello internazionale, quelli
che superano gli indici di riferimento sono pochini: degli oltre 250 fondi
azionari presi in esame, negli ultimi 12 mesi solo un quinto è riuscito
a battere l'indice di riferimento.
Anche partendo da lontano, i cinque in pagella fioccano: l'indice dei
fondi azionari italiani, infatti, in 17 anni ha battuto l'indice di Piazza
degli Affari per sei volte, ma ha perso il confronto per 11. Stessa musica
se si mettono a confronto il Bot a un anno e la media degli obbligazionari:
i fondi vincono solo sette anni su 15.
Se è così difficile fare meglio degli indici, perché
non investire sui fondi o sugli strumenti derivati che replicano esattamente
gli indici o i panieri dei principali titoli? In America, dove hanno cominciato
gli Spiders, i fondi-indice di Standard & Poors, e i Vipers, quelli
della Vanguard di Valley Forge, Pennsylvania, che da piccola società
di provincia è diventato un gigante del risparmio proprio grazie
ai suoi prodotti-indice collocati a costi bassissimi, il successo è
stato così travolgente da spingere anche grandi come Merrill Lynch
e Morgan Stanley a scendere in campo, decretando il boom per gli Exchange
Traded Funds (i "Fondi trattati in Borsa"). Di Etf, ora, ce ne sono centinaia.
I due più famosi, entrambi quotati all'American Exchange, sono il
Nasdaq 100 (riproduce l'indice del mercato dei titoli tecnologici, sigla
QQQ), e il Spdr 500 (sigla SPY, riproduce l'indice Standard & Poor
delle 500 principali società Usa). Hanno raccolto circa 60 mila
miliardi di lire ciascuno. Da noi, solo timidi tentativi.
Perché? Il sistema dei fondi italiani è quasi completamente
in mano alle banche. Otto gruppi bancari controllano il 70 per cento del
patrimonio gestito. L'avvento dei fondi-indice, prodotti a gestione passiva
e quindi da far pagare poco in termini di commissione, ruberebbe inizialmente
clienti ai fondi tradizionali, a gestione attiva. Risultato: meno spese
per i sottoscrittori, meno incassi per le società di gestione. Ecco
perchè le banche italiane ci vanno con i piedi di piombo e si tengono
strette le commissioni. Spiega Andrea Resti, docente di Matematica finanziaria
all'Università di Bergamo e consulente di grandi banche: «Le
commissioni, che sono l'unico elemento certo nei risultati futuri della
gestione, non sono così facili da conteggiare: la vecchia commissione
di gestione, onerosa ma semplice, è in via di estinzione. E spuntano
le "commissioni di performance" legate ai risultati. Ma attenzione alla
periodicità. Mettiamo che un gestore guadagni per sei mesi e perda
per i sei successivi: se la commissione di performance è calcolata
su base annua, non prende una lira; se è su base mensile si fa pagare
dal cliente anche se i guadagni sono stati effimeri. Molti fondi hanno
optato per la commissione mensile...».
Gli unici due fondi italiani che richiamano il termine indice nel nome,
Cisalpino Indice (proposto dal gruppo Bipop) e Padano Indice Italia (promosso
dal gruppo Intesa), in realtà non sono proprio dei fondi-indicel.
Peccato che il primo sia appesantito da una commissione di gestione annua
del 2,4 per cento, addirittura superiore a quelle dei fondi a gestione
attiva. Per difendere il loro ricco orticello, le banche italiane presentano
i fondi indice o gli strumenti derivati che replicano gli indici (i primi
sul mercato sono stati i "Benchmark" di Tradinglab, del gruppo Unicredito)
come prodotti per clientela sofisticata. Invece negli Stati Uniti, ormai,
è il gestore a essere considerato un lusso, mentre il pubblico che
vuole investire in Borsa senza affannarsi alla ricerca delle "best performances"
vola diritto in bocca agli Etf, che rispecchieranno alla virgola i risultati
degli indici che rappresentano.
Molta attenzione ai dettagli occorre prestare
anche prima di sottoscrivere i prodotti finanziari proposti dalle compagnie
d'assicurazione. Secondo Beppe Scienza, il docente torinese che ha appena
pubblicato il libro dall'esplicito titolo "Il risparmio tradito", le compagnie
ricorrono spesso a promesse da marinaio. Scienza ha raccolto parecchi esempi:
come quello di una inserzione pubblicitaria in cui «l'Ina sottolinea
come, in sedici anni, 1.000 lire investite nel fondo assicurativo Ina Valore
Attivo siano diventate 5.945 lire. Sembra tanto, invece è poco.
Nello stesso periodo, le stesse 1.000 lire investite in semplici Cct sono
diventate 6.650 lire al netto delle imposte, che invece colpiscono il capitale
maturato con la polizza». Alla categoria "mezze verità" appartiene
invece il messaggio della Banca Mediolanum di Ennio Doris per lanciare
la polizza unit-linked Di Più Money, descritta come un "Investimento
garantito in Borsa" con l'aggiunta di un bel "8,20 per cento all'anno fisso
per 8 anni". Spiega Scienza: «Peccato che sia garantito solo l'interesse
e non il capitale versato. Leggendo la Nota Informativa si scopre che "verrà
restituito il 100 per cento del capitale investito" solamente "in caso
di andamento positivo del mercato di riferimento". Bella forza! Cosa ci
vuole a garantire un investimento, richiedendo però che le quotazioni
salgano?».
Anche il terreno apparentemente tranquillo delle obbligazioni può
rivelarsi pieno di insidie. La Consob ha ormai quotidianamente nel mirino
le cosiddette "reverse convertible" (vedere riquadro a pagina 156), prodotti
rischiosissimi collocati spesso con troppa nonchalance. Ma anche tra i
compratori di titoli più classici c'è chi soffre. Come le
migliaia di risparmiatori che, nel 1998, sottoscrissero obbligazioni Mediobanca
Russia con scadenza nel 2008 per 750 miliardi di lire. Siccome la Federazione
Russa non onorò un debito con la Germania, l'obbligazione, che doveva
garantire un 6,40 per cento annuo, non ha mai staccato una lira di cedola.
E per riavere i loro milioncini, svalutati da un decennio d'inflazione,
i risparmiatori dovranno aspettare altri sette anni.
05.07.2001
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