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Uno
spettro s’aggira per l’Italia. La
paura di una nuova Tangentopoli. Anzi, a essere
precisi con le parole, di una nuova Mani pulite
che riapra una stagione d’indagini sull’illegalità
come sistema, che riprenda gli arresti in serie,
che arrivi ai piani alti della politica. Le manette
scattate ai polsi del banchiere Gianpiero Fiorani
e dei suoi sodali e le indagini sui furbetti del
quartierino hanno innescato una sindrome Mani
pulite che serpeggia nei palazzi romani del potere.
A leggere certi resoconti dei più attenti
tra i cronisti politici, sembra di essere tornati
al 1992, al totomanette, all’attesa del
disastro. Tanto che il direttore del Corriere
della sera si è sentito in dovere di tranquillizzare
il Paese, rassicurando, nell’editoriale
del 16 dicembre, che non siamo alla vigilia di
una nuova Tangentopoli.
Si passerà dai furbetti ai loro padrini
di partito? Le celle si apriranno anche per chi
aveva dei conti molto speciali nella banca di
Lodi e per chi da Roma sosteneva, tifava, tramava?
Oppure la bufera passerà lasciando solo
i soliti strascichi di polemiche tra i partiti?
Per ora sappiamo solo che Donato Patrini, l’assistente
di Fiorani, in un interrogatorio davanti ai magistrati
di Milano ha spiegato: “Fiorani indicava
il nome del politico, i recapiti, l’importo
del finanziamento o del fido che Popolare di Lodi
doveva erogare. Io compilavo i documenti, raccoglievo
la firma del parlamentare, aprivo il conto ed
erogavo i denari. Ero l’ufficiale di collegamento
con i politici. Per due anni siamo andati avanti
così”. È l’evoluzione
della tangente, senza quella sgradevole sensazione
delle buste che passano o delle valigette che
girano.
Quanto s’allargherà lo scandalo lo
sapremo nelle prossime settimane. Ma comunque
vada, il problema resta: non soltanto perché
è curioso che una vicenda giudiziaria semini
il panico in Parlamento, ma perché le vicende
dei furbetti hanno reso visibile una nuova specie
di Tangentopoli ancora senza nome, un inedito
sistema di rapporti perversi tra affari e politica,
una Partitopoli, una Furbettopoli che non può
certo essere lasciata come problema da risolvere
alla magistratura.
Anzi, i giudici non hanno alcuna competenza sulle
omissioni, sui sostegni silenziosi, sulle complicità
inconfessate, sui patti non scritti tra la finanza
e i politici. Eppure sono questi ultimi che nobilitano
le illegalità dei furbetti, le innalzano
dal quartierino e le fanno diventare sistema.
A destra come a sinistra. Le indagini giudiziarie
potranno indicare le illegalità più
evidenti, potranno al massimo rendere visibili
le connessioni più esplicite, ma poi dovranno
essere la politica e la comunità degli
affari a rompere il sistema, a fare pulizia, a
cambiare rotta: se vorranno.
Profezie realizzate.
Manette o no, la nuova Furbettopoli comincia
a delinearsi. Uno che se ne intende, Sergio Cusani
- finanziere di Tangentopoli, imputato di Mani
pulite e oggi impegnato nel volontariato nonché
consulente finanziario del sindacato - l’aveva
profetizzata. Lo va dicendo da qualche anno: altro
che 1992, i veri intrecci di potere sono quelli
che oggi la finanza e le banche hanno costruito
proprio sulla base della debolezza di imprese
e partiti usciti sfiancati da Tangentopoli.
Intendiamoci, le antiche, gloriose tangenti continuano
a esserci, anche se governate da un diverso sistema:
ai vecchi partiti-dogana, con le loro regole inflessibili,
i loro imprenditori di riferimento, i loro cassieri
segreti, si sono sostituiti - dice Cusani - centri
più informali, sistemi più flessibili.
Come dimostrano le mille storie di corruzione
venute alla luce negli ultimi tempi (pur senza
alcun clamore mediatico), i nuovi protagonisti
sono i feudatari che presidiano i valichi di passaggio
della spesa pubblica, i tanti vassalli e valvassori
di una nuova corruzione che, al passo con i tempi,
non è più “centralista”
ma “federalista”.
Al di sopra di questa rete, però, resta
l’iperuranio dei grandi affari, dei grandi
intrecci, dei grandi poteri. Le banche, le telecomunicazioni,
il gas... È questo l’ancora inesplorato
mondo della nuova Partitopoli su cui le indagini
Fiorani cominciano a mostrare qualche elemento.
Un altro che Tangentopoli, quella vera, l’ha
conosciuta, l’ex democristiano Bruno Tabacci,
oggi esponente dell’Udc e presidente della
commissione Attività produttive della Camera,
da tempo va ripetendo che si sta affermando una
nuova degenerazione dei rapporti tra affari e
politica. Tabacci la racconta così: la
politica ha perso peso, la finanza ha preso il
comando. Risultato: i furbetti del quartierino
fanno quello che vogliono. Sulla pelle di milioni
di risparmiatori raggirati e derubati. Bipop Carire,
Banca 121, Cirio, Parmalat, i bond argentini...
Ora la Popolare di Lodi.
“Massimo D’Alema dice che questa storia
delle banche non interessa alla gente, agli elettori.
Ma com’è possibile continuare a minimizzare
così?”, s’indigna Tabacci.
“Stiamo vivendo una stagione vergognosa
in cui la politica non esiste più e i furbetti
da anni fanno ciò che vogliono. Dall’opa
Telecom a oggi, i nomi che girano sono sempre
quelli”.
Già. Da subito Chicco Gnutti, Giovanni
Consorte, poi Gianpiero Fiorani, Stefano Ricucci
e la nuova compagnia di giro degli immobiliaristi.
Tutti all’ombra del Number One, come lo
chiamavano confidenzialmente, l’ex governatore
di Bankitalia Antonio Fazio che voleva diventare
il nuovo Cuccia, ma suonando la carica della finanza
cattolica contro laici e massoni.
Oggi la magistratura è arrivata a indicare
quella del banchiere di Lodi come un’associazione
a delinquere. E sono scattati gli arresti. “Un
epilogo inevitabile. Doveroso. Ma non mi rende
allegro”, commenta Tabacci. “Non si
volta pagina con le inchieste della magistratura,
con i rinvii a giudizio. Serve la politica. Salterà
Fiorani, salterà Ricucci, salterà
Consorte. Ma fin quando D’Alema dirà
che queste cose non importano alla gente, non
si cambia”.
Già nel luglio 2005 era possibile capire
l’essenziale sulle gesta della banda Fiorani
e sulle distrazioni del governatore Fazio. Lo
scrivevano i giornali (compreso Diario). Lo poteva
capire la politica. Ma nessuno si mosse per raddrizzare
la situazione, prima che fosse costretta a intervenire
la magistratura.
Bruno Tabacci, implacabile, retrodata i tempi
in cui era possibile intrevenire: già nel
gennaio 2005. Il Parlamento era al lavoro per
approvare la riforma sul risparmio, che conteneva
anche il mandato a termine per il governatore
e il passaggio all’Antitrust del controllo
sulle concentrazioni bancarie. Nelle commissioni
parlamentari le novità passarono, con il
consenso determinante della Lega. “Poi venne
da me Fiorani”, racconta Tabacci a Diario.
“Mi disse che il salvataggio che stava facendo
di Credieuronord, la banca della Lega, aveva spostato
gli equilibri. Io andai avanti per la mia strada,
ma effettivamente, quando la riforma arrivò
nell’aula della Camera, la Lega votò
contro e tutto si fermò”. Ma, secondo
Tabacci, anche i Ds avevano intanto cambiato atteggiamento:
“Fiorani era passato anche da loro, come
ha confermato il capogruppo alla Camera Luciano
Violante. I Ds sono rimasti incerti fino all’ultimo
su come votare: avevano annunciato l’astensione,
poi votarono con me, quando videro che tanto ero
stato messo in minoranza e che le riforme erano
bloccate”.
I furbetti hanno rapporti e coperture a destra
e a sinistra e padrini in tutti i partiti. Le
indagini su Furbettopoli sembrano dare ragione
alle intuizioni di Cusani e alle denunce di Tabacci:
nel sistema, in primo piano sono gli uomini degli
affari; i politici ci sono, ma al servizio dei
primi. Un tempo era la politica a decidere la
strategia. Sceglieva gli affari e le imprese,
poi passava a riscuotere. Oggi è l’economia
a mettere al suo servizio (e a volte a libro-paga)
la politica.
Evidentemente Silvio Berlusconi ha fatto scuola.
Ma ora il partito-azienda non è più
uno solo. Così la Lega si è legata
mani e piedi e si è consegnata ai disegni
di Fiorani e Fazio. E, anche a sinistra: quanto
hanno pesato le decisioni di Consorte sulle prese
di posizione di Piero Fassino e dei Ds? Proviamo
a fare una prima analisi, incrociando indagini
giudiziarie e cronaca politica.
La Lega transgenica
La Lega nord di Umberto Bossi non c’è
più. È finita. Lo scandalo Fiorani
ne ha decretato la fine. Non nel senso dei voti
e del potere: per i voti, vedremo tra qualche
mese; quanto al potere, la Lega non ne ha mai
avuto tanto come oggi. Però si è
trasformata in qualcosa di diverso. Dov’è
finito il movimento che tuonava contro Roma ladrona,
che in nome del popolo del Nord e del suo lavoro
criticava il sistema dei partiti e i poteri forti?
Dopo pochi anni di vita “romana” (e
di governo), la Lega in trasferta nella capitale
è diventata l’ancella di un progetto
finanziario altrui, la Guardia di Ferro del Bel
Banchiere di Lodi, anzi peggio: il braccio armato
del romanissimo governatore Fazio.
L’hanno convinta il sogno “politico”
della banca padana, certo, ma hanno aiutato molto
i soldi. Quelli con cui Fiorani, con la regia
di Fazio, ha salvato la Credieuronord, per esempio,
la traballante banchetta della Lega affondata
dall’incompetenza e dalle illegalità
con cui è stata gestita, fino a conquistarsi
il record di unica banca al mondo che in soli
tre anni è riuscita a perdere quasi per
intero il capitale sociale. Soldi prestati senza
alcuna garanzia a pochi clienti eccellenti, che
li hanno dissipati. Finanziamenti alla Bingo.net
di Maurizio Balocchi, il tesoriere della Lega,
finiti in un buco senza fondo.
Poi è arrivato Fiorani a salvare l’onore
padano. Ma non a restituire i soldini dei tanti
leghisti che ci avevano messo l’anima e
i loro risparmi. Curioso: la piccola banca della
Lega ha fatto, in piccolo, quello che tante potenti
banche italiane hanno fatto, in grande, nei crac
Cirio e Parmalat: salvare la faccia ai numeri
uno e lasciare nella melma i piccoli risparmiatori.
Come la signora Estella Gabello, il socio Adriano
Rossi, la socia Corinna Zanon e infiniti altri
leghisti che nel gorgo Credieuronord hanno perso,
in un colpo solo, due cose uniche nella vita:
il loro piccolo capitale e il grande amore per
la Lega di Bossi. Da questa brutta storia il partito
padano esce geneticamente mutato. Il suo popolo
ha perso l’innocenza, per sempre. E basta
leggere i verbali dell’ultima assemblea
dei soci Credieuronord per convincersene. In più,
non aiuta sapere che il ministro Roberto Calderoli
aveva avuto dal Fiorani un bel fido di 13 mila
euro, uno di quegli specialissimi fidi lodigiani
che sembrano tanto un regalo. Certo, secondo quanto
è emerso finora, il Calderoli non ne ha
mai approfittato e fino a oggi ha lasciato dormire
i soldini nel generoso conto della Popolare di
Lodi.
Ma resta il fatto - ed è perfino più
grave di un eventuale uso personale - che il partito
ha subìto proprio una mutazione genetica:
la Lega ha perso la sua autonomia di giudizio
e di comportamento, ha dimenticato quanto era
stata dura con Fiorani e Fazio in occasione dei
crac Cirio e Parmalat, ha dimenticato i tanti
piccoli risparmiatori del Nord imbrogliati non
solo - diceva allora la Lega - da Sergio Cragnotti
e Calisto Tanzi, ma anche dai banchieri che hanno
scaricato sui risparmiatori la loro esposizione
nei confronti di Cirio e Parmalat.
Tra quei banchieri c’era anche Fiorani,
ma la nuova Lega se l’è dimenticato.
La nuova Lega è la Lega di governo che
ha preso il posto di quella Lega di lotta che
oggi non c’è più. I nuovi
politici padani hanno modulato gran parte delle
scelte degli ultimi mesi sulle esigenze degli
ex nemici Fiorani e Fazio. Da loro si sono fatti
imporre l’agenda. Fino a farsi diventare
sopportabile persino il Ricucci Stefano, che più
romano non si può: ma, si sa, gli amici
dei miei amici sono anche miei amici...
Negli altri partiti del centrodestra, i furbetti
si erano garantiti, grazie ai conti molto speciali,
il sostegno di alcuni uomini. Sono già
emersi i nomi di Ivo Tarolli dell’Udc, di
Luigi Grillo e Romano Comincioli di Forza Italia,
di Aldo Brancher, ufficiale di collegamento tra
Forza Italia e la Lega e “reclutatore”
di Fiorani... “Lobbismo puro”, spiega
in un interrogatorio Fiorani a proposito di Grillo.
Ma anche qui: al di là della valutazione
morale sui soldi accettati dagli uomini dei partiti,
la novità è costituita dal fatto
che la politica è ridotta a mero apparato
di sostegno, pubbliche relazioni e lobbismo, dei
progetti di qualcun altro. Con Silvio Berlusconi
che, nell’ombra, sta a vedere come vanno
a finire le scalate e se si riesce a destabilizzare
il Corriere...
Il furbetto rosso
Quanto ai Ds, è paradossale, ma s’intravvede
qualcosa di simile, di speculare a quella che
appare come la mutazione genetica della Lega.
Saltando in tutt’altro contesto, cambiando
schieramento, storia, ideologia, cultura politica,
sembra purtuttavia di notare l’irresistibile
attrazione che scelte fatte altrove (in via Stalingrado
a Bologna) esercitano sul Botteghino. Una parte
del vertice Ds - il presidente Massimo D’Alema,
il segretario Piero Fassino, l’ex ministro
Pierluigi Bersani, oltre a esponenti di rilievo
come, tra gli altri, il senatore Nicola Latorre
e il tesoriere Ugo Sposetti - hanno passato molto
tempo degli ultimi mesi a difendere, spiegare,
sostenere, giustificare le decisioni di Giovanni
Consorte.
Ed è mai possibile che l’intero vertice
di un partito politico abbia come prima preoccupazione
quella che si rilasci in fretta l’autorizzazione
a un’opa? Nel bel mezzo della bufera mediatica
seguita alla notizia che anche Consorte è
indagato, Pierluigi Bersani, Gavino Angius, Vannino
Chiti sono andati avanti per giorni a insistere:
ma quando ci dite se quest’opa si può
fare o no?
Una volta, ai tempi del vecchio Pci, era il partito
a decidere: la linea politica, ma anche i comportamenti
negli affari e finanche la moralità degli
iscritti. Ora soprattutto Fassino sembra invece
affaticato alla rincorsa di una materia che pare
non padroneggiare del tutto. Ha passato l’estate
2005 a difendere il partito dagli attacchi: in
realtà a difendere Consorte e le sue scelte
finanziarie. Ha dovuto moltiplicare le interviste
e gli interventi anche perché doveva via
via rettificare, precisare, spiegare, correggere
se stesso. Con il mal di pancia crescente di settori
del partito e di elettori del centrosinistra che
non capivano perché tante parole ed energie
fossero spese dal segretario per affermare che
un misterioso odontotecnico con tanti soldi e
strani giri immobiliari ha la stessa dignità
imprenditoriale di chi rischia il suo capitale
per creare ricchezza e posti di lavoro.
Certo, Stefano Ricucci è alleato di Giovanni
Consorte e Consorte è forse il più
grande finanziatore del partito. Le iniziative
dei Ds e i festival dell’Unità sono
sponsorizzati da Unipol. Ma basta questo per far
diventare buona ogni sua scelta? E questo al netto
della correttezza e a prescindere da eventuali
reati commessi. Nel partito, nel sindacato, nel
movimento cooperativo, molti dirigenti e militanti
non capivano e continuano a non capire perché,
visto che il movimento cooperativo ha dei soldini,
li deve mettere proprio in una banca.
E non per pregiudizio anticapitalistico, per ingenua
e antimoderna paura della finanza, quasi si trattasse
di uno strumento del demonio. Non è affatto
in discussione la legittimità di fare finanza,
di farla anche a sinistra, né tantomeno
il diritto per Unipol di comprare una banca. No.
Le domande che sono maturate dentro il mondo dei
Ds - anche se faticano a trovare espressione pubblica
per paura di danneggiare il partito in una fase
ormai già pre-elettorale - sono di tutt’altra
natura. Non riguardano la legittimità della
finanza in generale, ma da una parte la specificità
dell’operazione in corso e la sua opportunità
strategica e industriale, dall’altra l’eventuale
illegalità dei metodi usati. Ecco le domande.
La prima:
perché il movimento cooperativo, in un
momento di declino e di grave crisi industriale
del Paese, punta tutto su un investimento finanziario?
La seconda:
perché rischiare così tanto in un
investimento (Bnl) che, come hanno sostenuto i
“cugini” del Montepaschi già
nella primavera scorsa, potrebbe non dare i risultati
sperati e anzi appesantire di debiti l’intero
movimento cooperativo?
La terza:
ma siamo sicuri che la scalata di Consorte a Bnl
non sia stata fatta violando le regole, in una
concertata partita doppia con l’assalto
ad Antonveneta di Fiorani e sotto la benevola
ala protettiva di Fazio?
La quarta:
come mai Consorte e il suo vice, Ivano Sacchetti,
hanno ricevuto affidamenti milionari dalla Popolare
di Lodi e hanno realizzato strane plusvalenze
da operazioni sui derivati?
Per rispondere a queste domande, conviene cominciare
ad ascoltare il ragionamento di uno che non solo
si sente Ds fin nel midollo, ma che si dice anche
innamorato del movimento cooperativo: Carlo Ghezzi,
ieri sindacalista e oggi presidente della Fondazione
Di Vittorio della Cgil.
1. Perché
proprio una banca? “L’Italia
è il Paese di Silvio Berlusconi, imprenditore
anomalo, rentier senza mercati. I suoi settori
d’intervento sono la televisione, l’edilizia,
le assicurazioni... Mercati protetti, fuori dalla
vera competitività internazionale”.
La prende larga, Ghezzi. “Dunque è
normale che il governo di Berlusconi attui una
politica favorevole alla rendita. Così
aggrava sempre più la crisi dell’Italia,
che esce via via dai settori produttivi e dalla
competizione internazionale. Invece, per cercare
d’invertire questa tendenza, la politica
dovrebbe interessarsi di dove va la nostra economia
e dovrebbe favorire lo sviluppo delle forze produttive.
Il programma del centrosinistra va in questa direzione.
Cambia la direzione di marcia. Ma allora, in quest’Italia
in declino, è un errore strategico per
il mondo cooperativo puntare sulla finanza, invece
di progettare un piano di sviluppo per il Paese.
È una sciocchezza dire che tutti i settori
sono uguali, che tutti gli operatori economici
sono uguali, purché rispettino le regole.
Chi produce e crea ricchezza per tutti non è
uguale a chi vive sulla rendita. E un governo
di centrosinistra dovrà premiare chi produce
e crea ricchezza per il Paese e non, come ora,
chi si arricchisce con la speculazione senza rischi
di competizione”.
Ghezzi prosegue il suo ragionamento: “È
poi un errore tattico quello di puntare - in odio
al capitalismo italiano, straccione, assistito,
furbacchione - su personaggi che sono il peggio
della finanza italiana. Regalando ad altri i rapporti
con il capitalismo dei cosiddetti salotti buoni”.
Più in generale, continua poi Ghezzi, “una
riflessione vera dovrà essere fatta, in
questo contesto, anche dentro il mondo dell’economia
cooperativa. È un mondo che va meglio del
resto dell’economia italiana. E allora,
io sono convinto che sia giusto che cresca. Che
faccia finanza. Che si doti anche di una banca.
Ma come crescere? Con gli stessi trucchi, le stesse
furbizie, le stesse scatole cinesi del capitalismo
familiare italiano? Mettendosi nelle mani di un
Cuccia di sinistra che blinda, rastrella, s’indebita?
Dicendo che i vecchi salotti del capitalismo fanno
schifo e poi facendo noi le stesse cose?”.
Tutto questo, naturalmente, al netto di eventuali
irregolarità. “Do per scontato”,
conclude Ghezzi, “che se ci sono illegalità
e reati, allora il discorso cambia”.
“Ma anche a prescindere da eventuali reati,
per cominciare dobbiamo almeno farla finita con
il cesarismo di manager che diventano padri padroni
della loro cooperativa o della loro impresa, manager
che non rispondono a niente e a nessuno. Dobbiamo
inventarci una nuova governance e un nuovo rapporto
tra soci e manager”.
Le cooperative, che sulla carta sono le strutture
produttive più democratiche del mondo,
si sono trasformate nella realtà in entità
monarchiche dove il carisma del manager pesa più
di ogni altra cosa. L’architettura societaria
di Unipol è un castello dei destini incrociati
di cui, alla fine, solo il presidente riesce ad
avere l’effettivo controllo. Consorte, certamente,
ha il merito di aver salvato la compagnia dal
fallimento, di averla risollevata e lanciata nell’empireo
della finanza italiana. Tutto il mondo cooperativo
(e tutti i Ds) gli devono molto. Ma basta questo
a mandar giù ogni sua scelta?
2. Un’operazione
antieconomica? Sono stati i Ds
di Siena, che controllano la Fondazione che a
sua volta controlla il Montepaschi, a dire che
il re è nudo: l’operazione Bnl non
conviene. È troppo costosa e rischia di
appesantire di debiti il compratore. Certo, i
senesi parlavano della loro convenienza a entrare
nell’operazione. Ma, sotto, il ragionamento
è questo: quella di Consorte è più
un’operazione di potere che un business.
Lancia Consorte al centro della finanza italiana,
ma all’italiana: con una banca non proprio
florida da ristrutturare e con debiti da pagare
per anni. Ne vale la pena? Fa davvero bene al
mondo cooperativo? Appena la scalata Bnl si profilò
all’orizzonte, il presidente di Unicoop
Firenze Turiddo Campaini sentenziò: “Non
mi piace, è un’operazione inutile
e rischiosa”.
Ma a questo punto le domande sull’opportunità
dell’operazione Consorte lasciano posto
alle domande sulle eventuali illegalità.
3. Una scalata
contro le regole? L’ordinanza
del giudice preliminare Clementina Forleo parla
chiaro: Fiorani e la sua “associazione a
delinquere” “si erano da anni impadroniti
del controllo della banca... gestendo il loro
complessivo operato in pieno arbitrio”.
Per fare questo, aggiunge, “erano occorsi
l’appoggio di importanti finanzieri italiani”,
“quali Consorte Giovanni e Sacchetti Ivano,
rispettivamente presidente e amministratore delegato
di Unipol”. Basta rileggere i resoconti
delle telefonate intercettate ai protagonisti
delle scalate estive per rendersi conto che qualcosa
non quadra. I rapporti Consorte-Fiorani sono strettissimi.
Le due scalate, su Antonveneta e su Bnl, sembrano
una cosa sola. Un unico, grande concertone. “Gianni,
io mi sento sangue del tuo sangue... Tu sai che
io sono sempre pronto e disponibile e lavoro anche
un po’ sott’acqua, come tu hai capito
bene”, dice Fiorani a Consorte il 19 luglio
2005.
I giochi erano cominciati molti mesi prima, nel
dicembre 2004. Consorte e Sacchetti avevano ottenuto
un prestito da 4 milioni di euro ciascuno, senza
garanzie, il 28 dicembre, tra Natale e Capodanno.
Subito dopo parte il rastrellamento sotterraneo
e incrociato delle azioni Antonveneta e Bnl. Unipol
compra il 3,5 per cento di Antonveneta, mentre
Lodi mette insieme l’1,4 di Bnl. Ben prima
che le due scalate fossero dichiarate al mercato:
miracoli della preveggenza. Le azioni Bnl - proprio
come quelle Antonveneta - sono rastrellate dagli
“amici” ben prima delle autorizzazioni.
E Consorte fa parte del gruppo dei rastrellatori
di Antonveneta, ricorda l’odinanza di custodia
cautelare del giudice Forleo, che aggiunge: “Si
trattava di persona particolarmente fidata, tant’è
che ci si era rivolti a lui anche per la vicenda
Earchimede...”. Cioè la più
importante delle operazioni fittizie messe in
piedi da Fiorani per far apparire a posto i coefficienti
patrimoniali della banca, che invece a posto non
erano affatto.
Non solo. Fiorani, come dimostra la telefonata
con bacio in fronte a Fazio della notte del 12
luglio, ha una linea diretta con l’arbitro
che in realtà è il capo della tifoseria.
Ma anche Unipol, pur con meno smancerie, ha la
sua linea diretta con la Banca d’Italia.
Lo stesso 12 luglio il vice di Consorte, Ivano
Sacchetti, riferisce al capo che ha parlato con
Francesco Frasca, il capo della Vigilanza di Bankitalia,
per dirgli che è tutto a posto, “che
nessuna banca ha dei problemi”. Poche ore
dopo, Consorte in persona chiama direttamente
Frasca. Sono le 18.21: “Gianni gli dice
che ha bisogno di lui”, annota il brogliaccio
della guardia di finanza. Alle 19.01 è
Frasca a chiamare Consorte per dirgli che “il
governatore voleva incontrarlo per capire bene
tutta la struttura”. Il giorno seguente,
altri contatti per fissare il primo incontro,
che sarebbe avvenuto alle 19 del 13 luglio.
Rastrellamento delle azioni condotto in modo sotterraneo
e fuori dalle regole. Complicità nella
falsificazione dei coefficienti patrimoniali della
Popolare di Lodi. Rapporto privilegiato con Bankitalia.
In che cosa, allora, la “scalata buona”
(Bnl) si differenzia dalla “scalata cattiva”
(Antonveneta)? Anzi, Consorte aveva anche l’asso
nella manica: una “talpa” dentro il
palazzo di giustizia, un giudice che (almeno a
quanto dice Consorte, intercettato, ai compagni
di scalata) avrebbe pensato lui ai giudici di
Roma...
4. Operazioni personali?
Non occorre essere geni della finanza per capire
subito che i conti molto speciali di Consorte
e Sacchetti (come quelli di tanti altri clienti
molto speciali di Fiorani) erano regali mascherati,
tangenti postmoderne. Che brutte le buste piene
di soldi, le valigette 24 ore, le banconote impacchettate
nella carta di giornale (come ai tempi di Mario
Chiesa...). Sorpassati anche i conti all’estero
e le società offshore (una volta si chiamavano
Levissima, o Gabbietta, o All Iberian...). Ora
i soldi arrivano con operazioni sui derivati.
Agli amici si apre un conto a Lodi. Lo si riempie
con un bell’affidamento senza garanzie.
Lo si rimpingua con soldi provenienti da complesse
operazioni finanziarie fatte dalla banca (sui
derivati, appunto) senza che il cliente muova
neanche un dito. I derivati sono strumenti delicati,
fanno guadagnare, ma anche perdere (Raul Gardini,
per dirne uno che ci sapeva fare, ci si è
rovinato). Ma niente paura: i clienti speciali
vincono sempre.
Consorte e Sacchetti ricevono 4 milioni di euro
a testa, così, esattamente un anno fa.
Soldini impiegati per vendite di opzioni put,
di cui si occupano Akros e Barclays, su incarico
della Popolare di Lodi. Ma nessun rischio, nessuna
preoccupazione: i clienti stanno tranquilli a
casa loro, e alla fine Fiorani fa arrivare sui
due conti gemelli un guadagno di circa 1,7 milioni
di euro a testa. Consorte affida il malloppo a
Teti finanziaria, gestita da un prestanome. Sacchetti
ripara il suo presso la Im immobiliare. Operazioni
finanziarie personali e perfettamente lecite,
sostengono i due in una nota diffusa il 14 dicembre
dal loro legale Filippo Sgubbi. Non sembra pensarla
così il giudice preliminare, che scrive
di “clienti privilegiati”, di “anomali
affidamenti”, di “operazioni parallele
e sovrapponibili”... Appare davvero strano
che i guadagni siano stati realizzati con vendite
di opzioni put a prezzi molto più alti
di quelli di mercato e con prelievo dei premi
molto prima della scadenza dell’operazione.
Insomma: c’era qualcuno che garantiva il
guadagno, comunque fosse andata a finire l’avventura
delle opzioni.
E comunque Consorte solo sette giorni prima, il
7 dicembre 2005, al Sole 24 ore aveva dichiarato
tutt’altro: “Quelle sul mio conto
sono operazioni di trading azionario che risalgono
al 2001 e 2002... Noi con la Lodi, sia come azienda
che come persone, non abbiamo fatto mai nessuna
operazione. Neanche una”. Ma quali sono,
allora, le operazioni di trading azionario fatte
nel 2001 e 2002? E perché ha negato i giochi
sui derivati del 2005? Fatti i conti in tasca
al numero uno di Unipol, si può calcolare
che abbia portato a casa 14 milioni di euro, in
quattro anni di operazioni sui titoli realizzate
nella banca di Fiorani. Nel 2002 aveva raggiunto,
senza garanzie, un fido di 7 milioni di euro:
quanto l’utile mensile della Popolare di
Lodi.
Le carte poi raccontano di altri giochi di sponda.
Come quello che potremmo chiamare “operazione
Quarto Oggiaro”: un favore fatto all’amico
Fiorani, un giochetto senza perdite né
guadagni. Nel marzo 2003 un prestanome di Fiorani,
Eraldo Galetti, amministratore della società
Liberty, ottiene dalla Popolare di Lodi, senza
garanzia alcuna, un fido di 2,4 milioni di euro.
Lo usa il 1 aprile per finanziare Liberty, che
acquista la villa di Fiorani a Cap Martin. Ma
così provoca uno scoperto di conto. Ripianato
il 29 aprile con un assegno di 2,9 milioni di
euro proveniente da Unipol, agenzia di Quarto
Oggiaro. Che cos’era successo? Fiorani aveva
telefonato a Consorte, chiedendogli di concedere
al suo prestanome un affidamento di 2,9 milioni.
Consorte aveva subito eseguito: ironia della sorte,
aveva scelto, per facilitare l’acquisto
della villa di Fiorani in Costa Azzurra, l’agenzia
Unipol di uno dei più noti e meno attrezzati
quartieri periferici milanesi.
Qualche giorno dopo, dicono le carte, il braccio
destro di Fiorani, Gianfranco Boni, compiva la
magia: faceva transitare sul conto di Galetti
cinque operazioni di compravendita titoli, che
fruttavano un capital gain, al netto, di 2,915
milioni. Da lì, bonifico verso il conto
Unipol, per rientrare dell’affidamento concesso
da Consorte. Con tanti ringraziamenti da Lodi.
Appare ben più discutibile, anche se ancora
sotto giudizio, l’operazione realizzata
da Consorte nel 2002 sulle obbligazioni Unipol:
un episodio sul quale è in corso a Milano
un processo per insider trading, in cui sono imputati,
insieme a Consorte, il suo vice Ivano Sacchetti
e il finanziere bresciano Emilio Gnutti. Un caso
mai visto nella storia della finanza italiana:
nessuna azienda vorrebbe mai rimborsare le obbligazioni
emesse, la compagnia assicurativa bolognese invece
aveva deciso di rimborsarle tre anni prima della
scadenza naturale. Perché questa scelta
apparentemente inspiegabile?
Consorte risponde: volevamo ridurre l’indebitamento,
è stata la compagnia stessa a ricomprare,
per risparmiare. “Ma l’unica
spiegazione possibile è che si voleva favorire
qualcuno, che sapeva del rimborso imminente”,
ribatte Beppe Scienza, autore del volume Il risparmio
tradito. “Sono andato a spulciare
le compravendite di quei titoli e ho scoperto
movimenti interessanti. I due titoli in questione
erano poco trattati, con volumi giornalieri bassissimi.
Il 28 febbraio 2002 viene annunciato il rimborso,
a 100 lire al titolo. Nelle settimane precedenti,
le transazioni s’impennano. Passano di mano
volumi per milioni di euro di uno dei due titoli
(il 24 gennaio 2002 addirittura 20 milioni). L’altro
titolo aveva ancora meno mercato, ma il 28 gennaio
ne passano di mano 9,8 milioni. Curioso che in
quelle settimane siano spuntati come funghi misteriosi
investitori che hanno comprato milioni di euro
di queste obbligazioni che prima non voleva nessuno.
Chi comprava quei titoli, a prezzi relativamente
alti, doveva sapere in anticipo dell’imminente
rimborso a 100 lire. Così chi ha comprato
ha realizzato buone plusvalenze, mentre a rimetterci
sono stati i soci dell’Unipol, che hanno
perso 14 milioni di euro”.
Se in quell’operazione del 2002 c’è
stato insider trading, lo deciderà il tribunale.
Certo è che, dal 2002 a oggi, Consorte
si è sempre più integrato nel gruppo
dei furbetti, con Gnutti e la sua corte bresciana
prima, poi con Fiorani e i suoi amici lodigiani
e poi ancora con i mattonari romani alla Ricucci.
Di quel gruppo pronto a nuovi arrembaggi, per
rinverdire i fasti dell’opa Telecom del
1999, è diventato la sponda a sinistra:
il “furbetto rosso”. •
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